Era un lavoraccio e non tutti erano disposti a farlo; quelli che venivano dal nucleo investigativo, per esempio, non ne volevano sapere di stare attaccati a un telefono.

Ma avevano memoria storica e conoscevano il territorio a menadito, così li destinai alle attività di indagine. E, d’accordo con Falcone, affiancai loro sottufficiali molto preparati sugli accertamenti patrimoniali e societari, tra cui il brigadiere Bellardita e uno dei nuovi, Vazzana: entrambi avevano davvero poco da invidiare ai colleghi più esperti delle Fiamme gialle. Adesso resta da mettere in piedi solo la «catturandi», mi dissi. Sul foglio dove avevo disegnato l’organigramma del reparto, e barrato man mano le attività messe a punto, restava un’unica voce scoperta. Quella degli investigatori da strada.

I cacciatori di latitanti. Un compito assai delicato e rischioso. A maggior ragione nella Palermo di quegli anni, dove la gran parte dei mafiosi che dovevamo stanare – capi, picciotti o gregari che fossero – erano tutti «uccel di bosco». Spettri che si aggiravano indisturbati per la città e per tutta la Sicilia, protetti da un fitto e inestricabile reticolo di connivenza e omertà. Le perquisizioni, anche improwise, a casa dei ricercati e dei loro parenti più stretti si rivelavano quasi sempre infruttuose. I latitanti, per evitare di lasciare tracce, si rendevano irreperibili portandosi dietro anche mogli, figli e fratelli. Qui bisogna cambiare strategia, pensai. Nel nostro reparto, c’erano uomini che alle mansioni d’ufficio preferivano stare all’aria aperta, nonostante tutti i pericoli del caso.

Ne scelsi un gruppetto e li cooptai nella catturandi, dando loro una consegna ben precisa: «Dovrete muovervi in maniera diversa rispetto alla prassi. La prima cosa da fare è incrociare le risultanze delle intercettazioni telefoniche e dei pedinamenti di persone considerate vicine ai latitanti e alle loro famiglie. Chi è alla macchia deve comunque sbrigare delle faccende personali, giusto? Iscrivere i figli a scuola, richiedere documenti al Comune e cose del genere. Bene, se uno si porta nella latitanza anche la moglie e il resto della famiglia, queste cose a chi le farà fare? A qualcuno di fiducia. Noi, per trovare i ricercati, dobbiamo prima rintracciare e poi stare alle calcagna di tutti i loro potenziali favoreggiatori. Amici, cugini, parenti alla lontana. Tutto chiaro?»

Il libro

Pagina tratta da “Noi, gli uomini di Falcone”
Autore: Angiolo Pellegrini e Francesco Condoluci
Editore: Sperling & Kupfer
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Palermo, gennaio 1981. Il capitano Angiolo Pellegrini assume il comando della sezione Anticrimine dell’Arma dei carabinieri. Un ruolo scomodo: la mafia in Sicilia ha seminato una lunga scia di cadaveri eccellenti e tiene l’isola sotto scacco. Molto più di quanto si voglia ammettere. Unica speranza, un giudice palermitano che con alcuni colleghi ha fatto della lotta alle cosche la sua missione: Giovanni Falcone. Ha bisogno però di uomini fidati che portino avanti le indagini a modo suo. E Pellegrini non si tira indietro: mette insieme una squadra di fedelissimi – la banda del “capitano Billy The Kid” – e va a infilare il naso dove nessuno ha mai osato, guadagnandosi l’amicizia e la stima del magistrato. Mentre i “viddani” di Totò Riina e Binnu Provenzano falcidiano a colpi di kalashnikov le vecchie famiglie, carabinieri, polizia e magistrati si alleano in un’azione congiunta che culmina nel rapporto dei 162 e nell’estradizione di Tommaso Buscetta. Il maxiprocesso potrebbe essere il colpo decisivo, e invece… Questo libro ricostruisce dall’interno, a ritmo serrato, il periodo più drammatico ed eroico della guerra a Cosa Nostra: quello che vide uno sparuto gruppo di uomini coraggiosi combattere davvero e dare nuova speranza alla Sicilia; ma anche quello che vide cadere Dalla Chiesa, D’Aleo, Chinnici, Cassarà, Montana. Forse inutilmente, perché il vero nemico rimase senza volto: un oscuro, ambiguo potere politico… Prefazione di Attilio Bolzoni.