Sono i giornalisti calabresi minacciati dalle cosche e dai politici collusi, ma non fanno notizia. Il tribunale della mafia non ammette losi né scudi.

di Enrico Fierro e Giampiero Calapà

Queste sono le storie di giornalisti calabresi minacciati dalla ‘ndrangheta. Ne abbiamo scelte otto e ci scusiamo con gli altri colleghi che a causa del loro lavoro sono costretti a vivere con l’alito fetente dei mafiosi sul collo. Quello che avviene in Calabria non accade in nessun’altra parte d’Italia. Perché qui la democrazia e i diritti costituzionali sono sospesi, la libertà d’informazione è limitata, la libertà di mercato non esiste, il monopolio della violenza non è prerogativa dello Stato, ma delle organizzazioni paramilitari della ‘ndrangheta che controllano ampie parti dei territori.

La politica ha margini ristrettissimi di autonomia nella selezione delle classi dirigenti e deve contrattare ogni passo, ogni scelta, con i boss. Soggetti che detengono pacchetti elettorali e soldi per finanziare campagne dei candidati, comprare deputati e consiglieri regionali, decidere le fortune di leader politici locali e nazionali.

C’è un cono d’ombra informativo in Calabria, ha denunciato il procuratore Giuseppe Pignatone. Ha ragione. In Calabria non esistono pagine locali di quotidiani nazionali. Quelli a tiratura regionale sono finanziati da gruppi imprenditoriali che hanno variegati interessi, molti dei quali dipendenti dalle scelte della politica. Per questo in Calabria il mestiere di giornalista-giornalista è difficile e rischioso. Metti in gioco la tua sicurezza, rischi la tua vita. E il tuo lavoro, come è accaduto a Lucio Musolino col suo licenziamento per una odiosa “giusta causa”, come motivato dalla società editrice di Calabria Ora.

Intanto proprio ieri è stato arrestato – grazie alle testimonianze del neo pentito Nino Lo Giudice – Antonio Cortese, presunto bombarolo di Reggio, affiliato al clan del pentito, e ora indicato dallo stesso Lo Giudice come responsabile delle bombe alla procura generale (3 gennaio 2010), al portone di casa del procuratore generale Salvatore Di Landro (26 agosto) e dell’avvertimento del bazooka, fatto ritrovare dopo una telefonata anonima, vicino al tribunale di Reggio (5 ottobre). È sempre di moda, dopo arresti di questo tipo, l’esaltazione leghista, infatti ieri puntuale è arrivata dal Nord la nota del governatore del Veneto, Luca Zaia, per complimentarsi con il ministro degli Interni, Roberto Maroni.

Il bisogno di sicurezza che gli italiani segnalano costantemente – ha approfittato Zaia – ha oggi una certezza: che la musica è cambiata e che i banditi, a cominciare da quelli più pericolosi, sono inesorabilmente destinati al carcere”. Non a caso l’ex ministro dell’agricoltura utilizza il termine “banditi”, per relegare il fenomeno mafioso a quello del banditismo, combattuto dai piemontesi di Cavour. Ma il questore Carmelo Casabona, parla di risultato che getta le basi per smascherare il “sistema-Reggio”, forse significa che c’è un altro livello dietro i banditi.

[ Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2010]