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Affari e politica: così la 'ndrangheta sedusse la terra delle cooperative

Dal boss travestito da bidello alle false fatture: il racconto di Tiziano Soresina a Giovanni Tizian

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di Tommaso Panza

 

Tiziano Soresina, cronista di nera con 30 anni di battaglie contro le mafie emiliane, spalanca ferite mai rimarginate davanti a una platea in silenzio. La sua storia è un viaggio nell’abisso di una regione che per decenni ha creduto d’essere immune.  

La Grande Illusione 
Negli anni ’70, mentre i primi clan calabresi piantavano radici, la politica ripeteva il mantra: "Qui non è Calabria". 
"Un mio collega", racconta Soresina "denunciò lo sfruttamento dei braccianti sotto pseudonimo. Ricevette una lettera con proiettili. Fu il primo segnale: la mafia c’era, ma chiudemmo gli occhi". 
Nel 1982, il boss Antonio Dragone scelse Reggio Emilia come quartier generale. "Arrivò come un immigrato qualunque. Faceva il bidello a Quattro Castella. Nessuno sapeva che organizzava summit con i capi-cosca di Cutro: un ‘G7 della ’ndrangheta’, come rivelò il pentito Antonio Valerio".  

Sangue e Messaggi

Il 1992 segnò la svolta violenta. "A Brescello uccisero Giuseppe Ruggiero con un inganno da film: killer travestiti da carabinieri, auto perfetta, targa vera rubata alla polizia di Cutro. Fu un messaggio alla Calabria: “Al Nord comandiamo noi’". Poi il Bar Pendolino: "Una bomba piazzata da Paolo Bellini – lo stesso killer della strage di Bologna – miracolosamente non esplose. Ma quando scrivevamo queste cose, i politici ci chiamavano: “‘Perché sporcate il territorio? Gli anticorpi? Non esistevano".  

I Traditori con l’Accento Bolognese  

La vera vittoria della ’ndrangheta, però, non fu scritta con il sangue ma con le complicità. "La vera arma furono i professionisti emiliani", tuona Soresina. "Come Roberta Tattini, consulente condannata a 9 anni: in una intercettazione tranquillizzava il padre spaventato: “Papà, questo non è un drogato, è il numero due della ’ndrangheta. È un imprenditore”. Poi c’è il caso Salsi, simbolo della cecità: "Un imprenditore pagò un milione di euro a una sconosciuta incontrata sul treno per una tangente. Quando lei sparì, invece di andare ai carabinieri, si rivolse a un giornalista... che lo consegnò alla mafia".  

L’Attacco al Cuore Economico*

Ma il colpo di genio fu economico. "Scoprimmo un sistema di false fatturazioni perfetto: imprenditori pagavano il clan per evadere milioni. Il guadagno? Percentuali per la mafia, tasse azzerate per le aziende. Risultato? Ospedali senza fondi, scuole che cadevano a pezzi. Un crimine invisibile: nessun morto sul marciapiede, solo ricchezza che evaporava". dice Soresina. 
"Fu la svolta degli anni 2000: la ’ndrangheta capì che poteva offrire ‘servizi’. E troppi imprenditori dissero sì".  

Il Risveglio nel Bunker

La resa dei conti arrivò col maxi-processo nel bunker di Reggio Emilia. "Un’aula bunker costruita in fretta, con centinaia di imputati che urlavano minacce. Scene da Palermo, ma al Nord. La svolta? I pentiti come Valerio: per la prima volta la ’ndrangheta aveva collaboratori di giustizia. Rivelarono tutto: dagli affari coi servizi segreti alle tangenti nei cantieri post-terremoto".  

La Ferita Aperta 

Oggi, conclude Soresina, la lezione è amara: "Il procuratore Calogero Parci parla di 20 anni di ritardo investigativo. E mentre noi processavamo la ‘ndrina di Cutro , altre cosche calabresi invadevano l’Emilia. Perché? Perché qui la mafia non è un’invasione: è una seduzione". Si alza tra gli applausi: "Il problema non è la ’ndrangheta che spara, ma quella che ti dice: “Facciamo affari?’. E troppi rispondono: ‘Sì’”.  
 

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