È il secondo giorno di Trame e davanti al pubblico di Palazzo Nicotera, che ha ormai esaurito la sua capienza massima, Marcelle Padovani racconta “Cose di Cosa Nostra”.

 

*foto di Mario Spada

Tano Grasso introduce questo secondo “libro senza tempo”, che segue a ruota la presentazione di “La Mafia in Casa Mia” tenutasi ventiquattr’ore prima a Palazzo Panariti. Raffaella Calandra modera magistralmente la discussione: le sue domande ci fanno scoprire i tratti salienti della personalità di Falcone e, grazie alla testimonianza del procuratore aggiunto di Napoli Gianni Melillo, mettono in nuova luce i suoi insegnamenti.

Giovanni Falcone era una persona “diffidente e timida” dice Marcelle Padovani, che lo ha conosciuto a Palermo nel 1984, dopo le prime confessioni di Buscetta. Un personaggio scomodo, “molto ostacolato in vita” sottolinea Gianni Melillo, non solo dai nemici ma anche dai colleghi. Ma lui andava avanti nelle sue indagini, con grandi capacità di “osservazione, memoria e attenzione ai dettagli” dice Marcelle Padovani. “Falcone sapeva interpretare il più piccolo gesto delle persone che interrogava” e riusciva così a ricavare delle testimonianze fondamentali. Ma sempre manteneva il distacco con grande professionalità, in mezzo al giudice e al pentito c’era sempre “il tavolo dello stato”, il rispetto reciproco dei ruoli. Nutriva grande fiducia nello stato e speranza nella lotta alle mafie, “era convinto che Buscetta fosse il primo di una serie di pentiti”, aggiunge la Padovani, che avrebbero aiutato a sconfiggere Cosa Nostra.

L’eredità di Falcone sta nei suoi metodi di lavoro innovativo – la flessibilità degli ufficiali giudiziari che venivano continuamente trasferiti, il lavoro di squadra -. “Falcone costruiva una vera e propria organizzazione che si contrapponeva a Cosa Nostra” dice Gianni Melillo. Marcelle Padovani approfondisce: “spersonalizzare la lotta, diminuire l’individuabilità dei singoli magistrati e aumentare la responsabilità collettiva nelle condanne, il pragmatismo del suo sistema di lavoro, e l’instancabile ricerca di prove certe”, questo era “il metodo Falcone”. Un metodo di successo, che aveva permesso di aumentare lo scontro, a un livello tale “da non essere più tollerabile da Cosa Nostra”, conclude Melillo.

Ciò che tangibile rimane dall’esperienza del giudice Falcone, è il “consolidamento del lavoro di squadra all’interno della magistratura” racconta Melillo. La Padovani denuncia invece “l’inflazione degli amici di Giovanni Falcone oggi”, tra i quali molti colleghi che lo lasciarono solo negli ultimi anni e che oggi percorrono strade perpendicolari alla sua. Con un breve racconto su una penna, regalata a Falcone durante una delle interviste e oggi ritornata a lei, Marcelle Padovani chiude un incontro che ha emozionato lei e la tutta la gente presente, tra scroscianti applausi e l’energia di una memoria rinnovata.

d.c.