Il quarto comandamento è la storia di Mario Francese, giornalista ucciso da Cosa Nostra a Palermo nel 1979, e del figlio Giuseppe che gli rese giustizia. Ne ha parlato al Trame Festival l’autrice, Francesca Barra, insieme a Lirio Abbate e Francesco La Licata.
Una storia, quella di Mario Francese, rimasta sepolta per anni. Era il 26 Gennaio del 1979 quando sei colpi di pistola distrussero la vita del giornalista e della sua intera famiglia. “Bum bum bum”, così descriveva l’allora dodicenne Giuseppe il terribile avvenimento, verificatosi proprio davanti alla porta di casa sua. E lo descriveva senza poter capire, inizialmente, che in quei sei colpi a perdere la vita era stato suo padre.

*foto di Mario Spada

Mario Francese era un cronista di giudiziaria e lavorava per Il Giornale di Sicilia. Un giornalista lasciato da solo all’interno della sua stessa redazione perché troppo attento, troppo puntuale, troppo libero rispetto a un contesto, quello in cui nuotava l’informazione siciliana, strozzato e inadempiente. “L’editoria siciliana era ed è caratterizzata dal duopolio di due grandi famiglie di imprenditori-editori che da cento anni gestiscono i giornali siciliani” commenta durante l’incontro il giornalista Francesco La Licata – “solo poche eccezioni, come L’ora di Palermo, cercarono di bilanciare le mancanze di un giornalismo che non bastava a soddisfare le esigenze dei siciliani”. La morte di Mario Francese si inserisce in questo scenario. In quegli anni la mafia corleonese si apprestava a fare “il salto di qualità” che l’avrebbe portata a diventare il maggiore gruppo criminale nazionale.

Il libro di Francesca Barra è un libro di denuncia e di amore. La storia di un figlio che logorato dal dolore, provò per vent’anni, senza mai arrendersi, a far luce sulla morte del padre, combattendo da solo contro il silenzio dei più. Cercando materiali, testimonianze, diventando esso stesso giornalista investigativo per regolare i conti col passato. E ci riuscì. Nel 2002 sono stati arrestati, come esecutori e mandanti dell’omicidio, i maggiori rappresentanti della Cupola: Bagarella, Riina, Greco, Provenzano. Ma purtroppo il trionfo della giustizia non risparmiò la vita di Giuseppe: il giovane, trovandosi a quel punto come “svuotato di un senso”, si impiccò. A pochi mesi dalla sentenza di condanna. “La mafia uccide non soltanto con le armi” – ha commentato Lirio Abbate – “la mafia uccide perché ti logora dentro mentre cerchi di capire perché la giustizia non ti dà giustizia: io considero Giuseppe, seppur morto suicida, il nono dei giornalisti uccisi dalla mafia siciliana”.

Non diversa è oggi la situazione dell’informazione italiana. I cronisti che parlano di mafia sono spesso costretti a vivere e lavorare in condizioni di pericolo e isolamento: “Ieri mentre seguivo l’incontro con i cronisti calabresi – ha affermato La Licata – “mi è sembrato di assistere a qualcosa di già visto in Sicilia prima delle stragi del ’92-’93”. Dopo le tragedie di quegli anni infatti qualcosa era cambiato, c’era stata una ribellione civile smossa dal risveglio delle coscienze. “Non è possibile” – ha concluso La Licata – “che si debba aspettare l’avvento di lutti gravissimi per prendere coscienza di un problema, quello dell’informazione minacciata, che è invece ormai anche in Calabria lapalissiano”.

g.g.