“Le mafie non sono solo bande di gangster che non sopravviverebbero oltre 40 anni: resistono in Italia da oltre due secoli grazie a tutto un apparato di relazioni esterne con consistenti pezzi della politica, dell’economia, della società civile, un sistema di coperture, collusioni e complicità che non permette di affrontare il problema come andrebbe affrontato”.    

Lo ha detto l’ex procuratore capo della Repubblica di Torino Giancarlo Caselli ospite della seconda giornata di Trame.4 per presentare “Vent’anni contro.  Dall’eredità di Falcone e Borsellino alla trattativa” scritto con il collega Antonio Ingroia e curato dal giornalista Maurizio De Luca.

Conversando con Andrea Purgatori Caselli ha sottolineato come “La mafia dovrebbe essere in cima all’agenda della politica e non dovrebbe essere trattata solo come un problema di ordine pubblico”, evidenziando i risvolti economici e sociali di un sistema che allunga i suoi tentacoli dappertutto, con un business stimato intorno ai 160 miliardi di euro l’anno.

Vent’anni anni di storia di lotta alla criminalità organizzata, quelli raccontati da Caselli e Ingroia, legati dalle testimonianze di chi come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Carlo Alberto Dalla Chiesa hanno pagato con la vita la loro guerra alle mafie. Il magistrato torinese racconta poi dei suoi sette anni a  Palermo, “una scelta nata pochi giorni dopo l’attentato a Borsellino, un momento in cui tutto sembrava perduto, una situazione che mi ha spinto a mettermi in gioco in prima persona, dopo aver ascoltato le parole di Nino Caponnetto: “E’ tutto finito; non c’è più niente da fare”.

Sollecitato da Purgatori Caselli rivendica con orgoglio i processi ad Andreotti e Dell’Utri, portati avanti dalla Procura di Palermo “nonostante personalità autorevoli ci accusassero di non avere la cultura della prova, che Falcone quei processi non li avrebbe fatti”.  E ricorda gli attacchi subiti per i processi agli imputati eccellenti culminati nella legge “contra personam” che gli impedì di concorrere alla carica di Procuratore Nazionale Antimafia, escludendo a concorso aperto i magistrati oltre i 65 anni.

“Non bastano le manette – ha concluso -, occorre promuovere la cultura della legalità e insistere sull’antimafia dei diritti, far sì che lo Stato garantisca i diritti fondamentali delle persone impedendo alla mafia di sostituirsi allo Stato sul terreno dei diritti”.