Ma Toro sa che lo prenderebbero subito. Nel suo quartiere,
al suo bar, al tavolino in fondo, quello vicino al muro. Gli unici che riescono davvero a evadere sono quelli capaci
di vivere dappertutto: non telefonare, non scrivere.
Non contattare nessuno, mai.

Morire da un posto e rinascere in un altro, senza rimpianti. Spostarsi come spostano i soldi: in un lampo, senza nemmeno vederli. Ma Toro è uno che ha sempre maneggiato contanti. Ha le mani grandi come badili. Il corpo di chi lavora, da generazioni, anche se non ha lavorato mai. Le uniche cose pesanti sono stati i soldi, mucchi di soldi. E il continuo problema di trovare sacchi, valigie, cantine, bagagliai, posti capaci di contenere tutti quei soldi. Fare attenzione all’acqua, il fuoco, gli animali, le muffe. Il vento e la pioggia. E il dubbio di averne dimenticati un po’, da qualche parte. E non riuscire a ricordare dove. Toro non sa sparire.
Per quelli come lui l’unica latitanza è nascosti in un bunker, sottoterra, vicino a casa. Vicino a un figlio, sepolto
poco lontano.

Il libro

Pagina tratta da “Cattivi”
Autore: Maurizio Torchio
Editore: Einaudi
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Dal pozzo buio di una cella d’isolamento sgorga una voce. È quella di un ergastolano condannato per sequestro di persona: un crudele gioco di specchi che moltiplica carnefici e vittime, prigionia e libertà.
A volte la forza della letteratura sta nel mostrare ciò che preferiremmo tenere sepolto. «La cella è lunga quattro passi e larga un paio di braccia tese. Se mi alzo in punta di piedi tocco il soffitto. È uno spazio a misura d’uomo. A misura mia».
Quello che scorre in cella d’isolamento è un tempo puro, svuotato di eventi. Tanto da far sembrare i giorni di chi può vedere la luce del sole – seppure attraverso le sbarre – come un luogo di libertà, fantasticato per sentito dire. Il mondo di fuori è piú evanescente ancora, piú irreale del passato, o dei sogni. Cresce allora la tentazione di chiamare il carcere casa, e farlo abitare dai ricordi: «Se ti svegli con il batticuore, per fortuna la prigione è lí che ti aspetta. Ti tiene sollevato, separato da terra, inchiodato con la branda nel muro. Sente i tuoi movimenti. Mentre dormi, la prigione trattiene il fiato per ascoltare il tuo respiro». L’orizzonte si restringe un istante dopo l’altro, ma anche i desideri cambiano forma: l’amore per chi si prende cura di te – non importa quanto crudelmente – dà l’innesco a una Sindrome di Stoccolma universale. Un incrocio di solitudini che accomuna carcerati e carcerieri, fino a estendersi all’intera prigione, compreso chi è apparentemente escluso da ogni società e gerarchia.

Cattivi è un romanzo di parole e sentimenti compressi, storpiati dalle cattività che li restringono. Ma anche una storia di sopravvivenza in condizioni estreme. Dando fiato a una voce che finisce per diventare l’essenza stessa della reclusione, Maurizio Torchio è riuscito nel miracolo di descrivere, senza mai giudicare, i fili invisibili che legano carnefici e vittime. Il cibo, il sesso, i rumori, l’attaccamento appassionato agli oggetti, servono a parlare di ogni spazio chiuso. A raccontare ogni attesa vana, ogni dolore ripetuto che nella ripetizione trova un balsamo. Fino all’ostinata irragionevole speranza nel dopo, perché «tutta la vita non consumata dev’essersi conservata, in qualche modo, da qualche parte. Dovrà arrivare. Non può essere evaporata semplicemente passeggiando, dormendo».