«Assolto!  Assolto!  Assolto!».

Parole  urlate  a  piena  gola  in  un  telefonino,  sottolineate  con  un  energico  pugno  sul  tavolo,  in  mezzo  a  una  folla  di  microfoni  e  telecamere,  da  un  avvocato  in  toga  raggiante  di  felicità.  Era  Giulia  Bongiorno,  nell’atto  di  comunicare  al  suo  cliente  l’esi-to  di  un  processo.  Tanta  esultanza  dipendeva  dal  fatto  che  il  suo  cliente  non  era  un  imputato  “qualunque”,  ma  Giulio  Andreotti:  l’uomo  politico  più  potente  dei  primi  quarant’anni  della  Repubblica  italiana.  Neppure  il  processo  era  “qualunque”,  perché  il  reato  contestato  era  tutt’altro  che  una  bagatella:  mafia.A  onor  del  vero,  il  triplice  urlo  “assolto!”  non  com-baciava  con  una  parte  essenziale  del  dispositivo  della  sentenza  che  il  presidente  della  Corte  di  appello  di  Pa-lermo  aveva  letto  pochi  attimi  prima.  Un  dispositivo  semplice  e  breve,  di  sole  otto  righe.  Che  testualmente  dichiarava  commesso  (commesso!)  fino  alla  primavera  del  1980  il  reato  ascritto  all’imputato.  Reato  commesso  (commesso!),  ma  estinto  per  prescrizione.

 

 

 

Il libro

Pagina tratta da: La verità sul processo Andreotti

Autori: Gian Carlo Caselli, Guido Lo Forte

Editore: Laterza