“Fare storia in modo approssimativo è come dire che meridionali onesti e i mafiosi sono la stessa cosa. E io non ci sto”. Lo dice con fermezza Enzo Ciconte dal palco di Trame Festival, dove ha presentato il suo nuovo libro La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza) dialogando con il direttore artistico Gaetano Savatteri.

 

L’intento di Ciconte è chiaro: “dire le cose come stanno, raccontando la storia del brigantaggio dagli occhi di chi gli sparava addosso”. Una storia – quella della mattanza dei briganti – non priva di episodi truci che Ciconte non ha voluto risparmiare al suo pubblico: teste mozzate sotto sale vendute in cambio di benefici, cavalli utilizzati per squartare corpi vivi. Una serie di metodi violenti che però non hanno risolto il problema, semplicemente perché – come ripete più volte l’autore –  “si cercava di criminalizzare un fenomeno che aveva una matrice sociale”. I briganti di Ciconte infatti sono contadini senza terra costretti a ricorrere alla “via della montagna”, come la chiama lui. Tant’è vero che il brigantaggio si è spento nel 1870 grazie alla diffusione di teorie politiche socialiste-cattoliche e alle migrazioni transoceanica.

La Mafia discende dal brigantaggio? Una domanda a cui Ciconte ha risposto più volte: “la mafia sfrutta il brigantaggio per nobilitare le sue origini. Ma le due cose non sono sovrapponibili, basti pensare che dove c’erano i briganti non c’era la mafia (tranne che a Nicastro, ma neanche lui ne conosce le ragioni, come ha ammesso con una risata). I briganti volevano cambiare l’assetto della società, per questo erano pericolosi. La mafia invece difendeva i privilegi dei signori: voleva solo partecipare al banchetto. Per questo non è stata eliminata”.