Della lotta alla ‘Ndrangheta, il magistrato Nicola Gratteri ne ha fatto la propria bandiera. A testimoniarlo, l’accettazione da parte sua della non retribuzione per l’incarico che ricopre: “Chi combatte la mafia segue un credo, e questo credo non può essere connesso a un secondo fine”, dichiara: “Questo è un compito che richiede fede e rispetto, la stessa fede e lo stesso rispetto che il credente deve utilizzare quando si approssima a un luogo sacro”.

Prima ancora di parlare, insieme al giornalista Pietro Melia, al pubblico di Lamezia Terme della sua ultima pubblicazione, il pm illustra le inefficienze del sistema:  la mancanza di personale; la necessità di modificare il codice di procedura penale; la prescrizione, che fa sì che i reati rimangano esclusivamente sulla carta. Notifiche e rinvii causano tempi morti: l’informatizzazione abbatterebbe i tempi ed eliminerebbe la corruzione e la concussione. “Abbiamo a che fare con una delle cose più sporche che esistano: in questi anni la ‘ndrangheta è diventata la più potente organizzazione criminale al mondo”, spiega Gratteri.

“Fratelli di sangue” è il libro precedentemente scritto con la collaborazione del giornalista Antonio Nicaso, e definito dall’autore stesso “il migliore, dal punto di vista scientifico, dopo il recentissimo ‘Dire e non dire’”. Contiene la filosofia della ‘ndrangheta: i comportamenti, i ‘tic’, le debolezze, le ossessioni presenti tra i suoi uomini; attraverso la manifestazione di questi atteggiamenti -piccoli e grandi- e alla loro non sottovalutazione, si può giungere alla comprensione del fenomeno. In poco tempo, “Fratelli di sangue” ha venduto 40.000 copie, scatenando una diatriba tra Rizzoli e Mondadori per accaparrarselo. Perché ha venduto tanto? Perché ne possiede una copia ogni famiglia ‘ndranghetista, ogni caserma dei carabinieri e perché in esso sono citati tantissimi nomi, “e chi vuole capire se il suo è tra questi, legge il libro!”,  ironizza il pm.

Gratteri ci spiega che i due elementi di forza su cui si basa la ‘ndrangheta sono il vincolo di sangue  e l’ossessione per le regole. Quest’ultimo attributo ha permesso all’organizzazione di essere identificata come molto credibile nel panorama internazionale. Tardare anche solo di un quarto d’ora ad un incontro, è segno di trascuratezza che dev’essere punita con una sentenza, spesso un’umiliazione. Questa attinenza alle regole stabilite, giustifica l’omicidio di un altro uomo: per chi sgarra, la morte è l’unica soluzione possibile; una punizione che non si vorrebbe compiere volontariamente, ma di cui non si può fare a meno, e di cui a macchiarsi le mani sono sempre gli ultimi nella piramide di potere dell’organizzazione criminale.

Il matrimonio è un rito per la cultura ‘ndranghetista. I protagonisti convolano a nozze ancora ragazzi; le fanciulle sperano in questo modo di svincolarsi dai legami di dipendenza adottati nella casa paterna e di ottenere, con una vita propria, un barlume di indipendenza. Mettono al mondo figli che costituiscono un’altra fonte di potere: le donne diventeranno le mogli dei rampolli delle famiglie mafiose, creando così alleanze tra i futuri congiunti, che riecheggiano –non troppo vagamente- quelle che si stabilivano tra le nobili casate del Settecento. I maschi, invece, ‘imparano il mestiere’ e proseguono le gesta del padre e del nonno.

Gratteri accenna anche ai collaboratori di giustizia, la cui gestione è estremamente pesante per un pm “È come aver a che fare con l’adozione di un bambino”, dice. Inoltre, l’incarico è ostico: chi li interroga deve aver studiato profondamente la loro storia criminale, quella della loro famiglia, dei loro amici e nemici.

Un rimando a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, definiti dei ‘fuori classe’ che hanno anticipato di vent’anni -rispetto ai loro colleghi- lo studio e la comprensione del fenomeno mafioso. “Oggi molta gente ha fatto carriera sulla loro pelle”.

Gratteri parla dei calabresi e della loro propensione all’essere comandati: “sono per loro natura servili, non reattivi e grandi individualisti. Questo è l’autolesionismo del calabrese: il vero nemico del calabrese è il calabrese stesso. E’ difficile che avvenga, in questo modo, una rivoluzione culturale. Il commerciante che non denuncia, non lo fa per omertà, ma perché non sa a chi rivolgersi, non aiutato certo dalla sua diffidenza nei confronti delle altre persone”. E conclude con un monito per i giornalisti: “Non siate pacioni, scontratevi anche con la magistratura, parlate male di me, se ne avete motivo. Non fermatevi al comunicato stampa, ma andate in giro, intervistate e interrogatevi. Fornite ai lettori e alla gente più elementi possibili per farsi un’idea delle cose, per discernere, per capire e per sviluppare una coscienza propria e critica”.