Trame News

Responsive Image

Numero del

3 settembre 2021

Cambia numero

  • Focus second slide
  • Focus fourth slide

Aggregatore Risorse

Barre. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile

Condividi:

di Maria Elena Saporito e Lydia Masala

Elisabetta Reale e Monica Zapelli parlano con Francesco "Kento" Carlo 
Di Maria Elena Saporito e Lydia Masala 
Il rapper Kento, nato a Reggio Calabria, cresce negli anni delle guerre di ‘ndrangheta, “quelli dei morti ammazzati per strada, quelli dei compagni di scuola spariti perché dovevano scappare con le famiglie”. Il rap lo ha aiutato in molti modi: innanzitutto a distaccarsi da questa realtà, poi a narrarla e farne la chiave interpretativa delle sue esperienze. Per lui il rapporto con il territorio è fondamentale: in Calabria c’è “tutto il bruttissimo e tutto il bellissimo”, è una terra di estremi forti, stretti in un rapporto complicato e che non è possibile ignorare. Non è un paradiso ma non è neanche una terra condannata: Francesco non semplifica la realtà, la vuole capire e far capire. Questo aspetto del suo carattere lo accompagna anche in carcere e nei suoi laboratori. Kento, descrive Monica Zapelli, è un insegnante che spiazza, il suo è un misto di didattica e umanità che gli permette di entrare a stretto contatto con i ragazzi, di creare un rapporto di fiducia. Kento vuole sapere davvero dei suoi ragazzi, del loro vissuto e dei loro sentimenti. In un contesto di privazione della libertà, chiede loro di parlare, attraverso barre “materiali e musicali”, delle proprie emozioni.
“Senza musica non c’è cambiamento sociale”: così Francesco Carlo, in arte Kento, spiega quella che per lui è l’importanza della musica. L’hip hop e il rap sono il linguaggio di tutti, non solo dei giovani, influenzano la nostra vita quotidiana, l’arte, il cinema, il modo di vestire. Sono le forme musicali che meglio raccontano la realtà e che tutti conoscono. Quando entra in carcere tutti i ragazzi sanno cosa sia “una barra”, se non ascoltano rap tutti sanno cosa sia, se non lo ascoltano abitualmente hanno piacere di scoprirlo.
Per questo motivo Kento sceglie il rap come medium per interagire coi ragazzi cui rivolge i suoi laboratori nei carceri minorili sparsi per l’Italia. Scrivendo musica, i ragazzi hanno la possibilità di tirare fuori ciò che hanno dentro, talvolta di scoprirlo indagandosi per la prima volta e stando per la prima volta “dall’altra parte del microfono”, quella di chi parla e si fa sentire. Scrivendo, rappando, possono comunicare agli altri quello che pensano, farsi ascoltare anzichè subire quanto gli viene detto in una realtà quale quella del carcere, dove “devono chiedere per favore” il riconoscimento dei loro diritti. Barre racconta questo: una realtà di rabbia e frustrazione dove il senso di impotenza spinge spesso all’autolesionismo finanche al suicidio. Si racconta il sistema su cui si fonda l’incarcerazione minorile, dove i circa quattrocento minori chiusi nelle carceri italiane vengono dalle fila degli ultimi per condizione economica, sociale, culturale. Kento descrive ragazzi spesso illetterati, di recidivi che non avendo trovato migliori possibilità fuori dalle sbarre scelgono di tornarci. Ragazzi che hanno tanto da raccontare e che se stimolati sanno fare tesoro delle loro esperienze, districando quel gomitolo di emozioni e sensazioni in cui si trovano aggrovigliati e che sono l’anima del rap. 
Secondo Kento a finire in carcere sono gli ultimi, non necessariamente soltanto chi lo merita. Il carcere minorile è l’ultima spiaggia, esistono numerose misure alternative alla detenzione: chi finisce in carcere, dice il rapper, è chi non ha i genitori, chi non può pagarsi un avvocato, chi fa lo sbruffone davanti al giudice, chi non parla bene l’italiano. Non si finisce “nell’imbuto” per demerito ma spesso per mancanza di possibilità. In carcere, secondo Kento, più che in altri luoghi si vede il classismo: è il luogo del potere debole, quello che ha bisogno di ipertrofia normativa per garantire l’ordine. I ragazzi che vivono dentro contesti criminali sono doppiamente vittime, non hanno potuto scegliere il proprio destino e sono respinti da quel “mondo dei giusti”che li giudica e li classifica senza appello, come nota anche Zapelli. è questa dichiarazione di fronte alla videocamera di chi girava un documentario sul tema che una decina di anni fa, quando per la prima volta Kento è chiamato per proporre un laboratorio in un Istituto Penitenziario Minorile di Roma, lo mette nei guai. è chiamato a ritrattare dal direttore del carcere, che di fronte a un rifiuto blocca il laboratorio. Di questa punizione per la sua coerenza, in realtà sono i ragazzi a pagare il prezzo. Qui Kento realizza che la sua sarà un’impresa complessa per quanto moralmente giusta, in un sistema non sempre corretto che racconta nel suo libro. Un libro che pensava di non poter scrivere, per delicatezza, per rispetto nei confronti dei giovani detenuti ma che ha sentito fosse necessario mettere su carta perché queste storie non potevano continuare a vivere nell’oblio.
Tutto questo serve? Kento sostiene di sì, “eccome se serve”. Si tiene in contatto coi ragazzi che hanno scontato la loro pena e sono tornati a vivere fuori dalle sbarre: c’è chi ha spiccato nel rap, chi studia per diventare avvocato ma soprattutto c’è chi sta nel mezzo, chi prima del carcere non aveva nulla ma indagando tra le strofe ha conosciuto se stesso e riscoperto la speranza, la possibilità. La possibilità di una normalità che non ha mai avuto, di sposare la donna che ama, di essere un buon padre, quel sogno semplice che quasi tutti i suoi “ragazzacci” condividono, ben lontani dal mondo criminale.
Nel libro lancia l’importante messaggio di non restare passivi, di informarsi sulla realtà carceraria minorile che, si augura il rapper, un giorno desterà incredulità al pari di quanta oggi ce ne provoca pensare ai manicomi o ai matrimoni riparatori.
Francesco “Kento” Carlo è un rapper, attivista e scrittore di Reggio Calabria. Musicista affermato, dal 2009 conduce numerosi progetti nelle diverse carceri minorili italiane, scuole e comunità di recupero, conducendo laboratori di scrittura musicale. Ha vinto il premio Cultura Contro le Mafie nel 2014, mentre nel 2017 è stato premiato da Casa Memoria Impastato e ANPI

l silenzio: terreno fertile per la ‘ndrangheta

Condividi:

di Lorenzo Zaffina e Paola Costanzo

Giornalista, inviato, volto di Presa Diretta: tutto questo è Riccardo Iacona, intervistato nella terza serata di Trame 10 dal padrone di casa Giovanni Tizian. 
“Raccontare i poteri criminali in Calabria” è il titolo dell’incontro ma anche la missione professionale di Iacona che durante l’incontro ricorda il suo inizio con Michele Santoro, l’epoca in cui le classi dirigenti negavano l’esistenza della mafia. Iacona pone l'accento sull’evoluzione che ha avuto il racconto mafioso e di come, man mano, sia diventato patrimonio comune fino a quando, dopo il periodo delle stragi del '92, tutto il paese ha compreso la portata del fenomeno e ancora fa notare come, nel corso degli anni, ci sia stato un affievolimento dell’attenzione riguardo il tema 'ndrangheta in Calabria, considerandola una criminalità di serie B e, citando le sue parole, “bisognerebbe capire, dimostrare e fare inchiesta sul fatto che la 'ndrangheta non sia solo un fatto calabrese ma che la Calabria è soltanto il laboratorio. Quello che succede lì è successo e sta succedendo dappertutto". Questo silenzio ha permesso alla 'ndrangheta di crescere fino a inquinare la classe dirigente del paese. A tal proposito Tizian ricorda l’avvicinarsi delle elezioni e quindi l’ingerenza delle cosche durante le campagne elettorali. Iacona è fermamente convinto che la libertà sia “qualcosa che si deve coltivare, e non si può coltivare la libertà di dire NO al mafioso se non vi è libertà politica. Dobbiamo costruire il nostro futuro, mettere candidati che non hanno bisogno della 'ndrangheta. Bisogna sostenere le persone che hanno conoscenza su questo fenomeno”.
Il conduttore tratta il tema dell’informazione, per lui essenziale, notando come negli ultimi tempi sia ancora troppo dipendente dall’agenda politica, che la devia dalla sua vera missione: cogliere la profondità delle cose. 
‘Presa Diretta’ ha come obiettivo quello di entrare nel vivo delle storie adottando una dimensione narrativa che rappresenti la complessità della realtà mantenendo allo stesso tempo la giusta sensibilità.
Tra le sue ultime inchieste vi è quella riguardante "Rinascita Scott”, una delle più importanti operazioni contro la 'ndrangheta che vede come protagonista il magistrato della procura di Catanzaro Nicola Gratteri. Ciò che sottolineano Tizian e Iacona è che nulla sfugge al potere criminale: "Siamo di fronte ad una mafia che pensa di essere invincibile e che forse non ha tutti i torti”.
Il 31 gennaio 2021 ha inizio il secondo maxiprocesso dell’inchiesta "Rinascita Scott”, che vede oltre 300 imputati e più di 2mila testimoni. Dopo la puntata di Presa Diretta scoppiano le polemiche: Iacona afferma di non aspettarsi questo attacco. Ma quando va in onda in prima serata un racconto crudo di mafia scoppia lo scandalo: “Dicono che non potevo raccontare del processo prima che andasse in sentenza. Ma in questo modo non ci sarebbe stata informazione, nessuno avrebbe saputo niente. È l’assurdità di voler ridurre la verità ad un dato giudiziario. Questo lo fanno ora perché sono abituati al silenzio sulle inchieste”. 
Il dibattito è proseguito ancora spostandosi sui temi della giustizi e dell’impunità. Si è parlato di politica ed è stato ricordato Gino Strada. Ma soprattutto si è posto l’accento sulla necessità di denunciare, di parlare per rompere il silenzio che è campo fertile della criminalità.

Resistere sui territori

Condividi:

di Gilberto Villella e Ilenia Ciambrone

Gianni Speranza presenta il suo libro “Una storia fuori dal Comune”, il cui titolo invita ad ampliare le vedute partendo dalla storia della città di Lamezia Terme nel periodo del suo mandato.
Ma l’obiettivo non è quello di raccontare il Comune dal punto di vista politico, ci tiene a sottolineare Gianni Speranza, ma quello di mettere in evidenza i grandi problemi e le grandi potenzialità con la fiducia che possa essere condiviso in tutte le piazze d’Italia. “Racconta una spaccato delle nostre vite” osserva la giornalista Emanuela Gemelli nell’intervista.
L’ex sindaco esprime la sua disperazione di fronte alle due principali lacune: mafia ed emigrazione da parte dei giovani. Lancia una provocazione: “O forse le due cose sono legate?”. Continua invitando a riflettere con un insegnamento ricevuto da una giovane donna lametina, Stefania Tramonte, il cui padre, Francesco Tramonte, fu vittima di mafia: sono più sfortunati coloro i quali hanno ricevuto un’educazione basata sul successo, i soldi e sul consenso mafioso. 
A seguito dell’attenta analisi inerente al libro, emergono passaggi molto umani. Il professore ammette: “ho fatto tutto quello che era possibile, sforzo dopo sforzo.  E conclude: “La storia non inizia con me, non finisce con me: La storia siamo noi”.

Senza giustizia: storia di due giusti di Calabria.

Condividi:

di Jacopo Saturno e Chiara Grutteria

Apre l’incontro Giovanni Tizian, direttore artistico di Trame, insieme a Deborah Cartisano. Lei è la figlia di Lollò Cartisano, vittima della stagione dei sequestri in Calabria, rapito e ucciso per aver denunciato i suoi estorsori alle forze dell’ordine e lavora oggi per tenere alta la bandiera della legalità e del ricordo.
Dal palco, hanno invitato il pubblico a sostenere la fondazione Trame e l’Associazione Antiracket Mani Libere in Calabria, e a collaborare con le istituzioni contro l’omertà.
Lo spettacolo inizia quando sale sul palco l’attore lametino Achille Iera. In scena il monologo di Fabio Truzzolillo con le musiche di Erica Cuda, sui sanguinosi eventi del 24 maggio 1991, il giorno in cui Pasquale Tramonte e Francesco Cristiano, netturbini esercenti per il comune di Lamezia Terme, vennero barbaramente uccisi a colpi di Kalashnikov.
I due abituati a lavorare con le scope di saggina, quel giorno si recarono a lavoro per coprire un turno vacante, sul camion di un’impresa privata insieme al dipendente Eugenio Bonaddio che sedeva alla guida mentre Francesco sedeva al centro e Pasquale sul sedile del passeggero a dare le indicazioni. 
Quel giorno, mentre i tre svolgevano servizio, un’ombra nascosta dietro i cassonetti ha aperto il fuoco e ha sparato 22 colpi sulla cabina del camion, uccidendo i netturbini e ferendo l’autista. La morte dei due doveva essere un messaggio chiaro di una parte della criminalità organizzata verso il consiglio comunale e le altre cosche, in modo da ottenere il denaro pubblico stanziato per raccogliere la spazzatura e nascondere ai cittadini gli sprechi del loro stile di vita. 
Da quel giorno sono iniziati trent’anni di sospetti e silenzi dalla politica e dalle istituzioni segnati anche dal primo scioglimento del comune per infiltrazioni mafiose. Le indagini si sono arenate dopo la definitiva assoluzione di Agostino Isabella il 18 luglio 1996, personaggio vicino alla criminalità organizzata, individuato grazie alla testimonianza di Bonaddio. 
“È vero, abbiamo bisogno di memoria, ma abbiamo soprattutto bisogno di giustizia” ha detto Deborah Cartisano ai microfoni di Trame e recentemente la fondazione ha lanciato una petizione online, dal valore simbolico, per la riapertura delle indagini sul caso, come chiedono da tempo le famiglie e i cittadini onesti, nella speranza che questa volta la giustizia faccia il suo corso. La petizione è disponibile al seguente link:

https://www.change.org/p/al-presidente-della-repubblica-sergio-mattarella-al-ministro-della-giustizia-marta-cartabia-al-pro-riapriamo-le-indagini-per-francesco-e-pasquale-vittime-innocenti-di-ndrangheta-a-lamezia

Il coraggio di una figlia

Condividi:

di Valentina Ciambrone

Il racket è una delle attività criminali più immutate nella storia, una costante che accompagna la mafia dentro ogni sua trasformazione e contiene all’ interno tutte le sue componenti.  Come ogni attività mafiosa, vanta il potere di non risparmiare nessuno e di essere sempre più violenta, diretta ed insaziabile.
È questa, purtroppo, la storia che colpisce ed accomuna molte realtà calabresi, tra cui quella della famiglia Miscimarra. A parlarne è la figlia Francesca durante l’incontro “Storie di donne e uomini” a cura di Laura Fazzari, nel corso della terza giornata del Festival Trame.10.
Una donna che non ha avuto paura e che, a distanza di tempo, ancora ora decide di denunciare apertamente. 
Imprenditrice di Lamezia Terme, il papà di Francesca aveva un’impresa di impianti elettrici. Quando lei subentra nell’azienda di famiglia, scopre che il padre era ormai da tanti anni vittima di racket e di usura. Sprofonda improvvisamente in una buca, in cui sembra non trovare via di fuga. È una giovanissima donna, una mamma, che capisce subito che quella vita non fa per lei. Decide così di denunciare.
Ma la scelta le costa caro.  La sua azienda chiude e Francesca è costretta ad andare via ed iniziare una nuova vita in un’altra regione. 
“Volevo ingrandire l’azienda di papà, ma mi sono ritrovata in qualcosa più grande di me”. Un’unica donna contro un sistema prettamente maschile; un’unica donna che, come se non bastasse, si sente ancora più sola, senza poter contare sull’aiuto di amici, famiglia e Stato.
“Ero piccola, ero figlia, ero mamma di una bambina di sette anni, ma vedevo che si stava prendendo via tutto” così, “mi sono presa quel macigno sulle spalle per guadagnarmi la mia libertà, ma soprattutto quella di mio padre”. 
Una storia di coraggio che vede Francesca non più come spettatrice, ma come attrice, forte e convinta.
L’episodio di questa giovane imprenditrice è l’esempio lampante di come però denunciare a volte non basta.  Ma “c’è bisogno di tutti, senza alcuna paura. C’è bisogno di una partecipazione attiva della città, che muova i suoi passi verso un’economia giusta, che possa sostenere tutte quelle persone che non hanno deciso di rimanere in silenzio. Io ritornerò perché è qui che voglio stare. La paura c’è stata e ci sarà, ma io sarò più forte”. 
Un mantra da tenere sempre a mente, per riuscire a lottare e vincere a nome di Francesca, della città di Lamezia Terme, del popolo calabrese e di tutte quelle persone che credono in qualcosa di diverso.

Il villaggio della speranza: la bellezza contro la ‘ndrangheta

Condividi:

di Maria Elena Saporito e Lydia Masala

“Il villaggio della speranza: la bellezza contro la ‘ndrangheta” è l’incontro di Trame.Festival dedicato alla presentazione dell’appello “Salviamo dall’abbandono e dal degrado una perla della costa tirrenica calabrese”. L’appello, lanciato dall’Associazione Pietro Porcinai APS onlus, promuove la conoscenza, tutela e valorizzazione delle opere del grande paesaggista fiorentino. Mara Filippi Morrione e Ilaria Rossi Doria, architette paesaggiste, consigliere dell’associazione, esponenti del gruppo di lavoro Per Nicotera, ne discutono con Nuccio Iovene, già membro della commissione parlamentare antimafia.
La storia del “villaggio della speranza” inizia cinquant’anni fa: nel 1971 a Marina di Nicotera è inaugurato un villaggio di eccellenza in una delle perle naturalistiche della Calabria, la cosiddetta Costa degli Dei. Si tratta del complesso turistico “Gioia del Tirreno”. Progettato dal ventiseienne architetto Pierfilippo Cidonio, e dall’illustre paesaggista Pietro Porcinai, il villaggio turistico non si considera come un monolite autosufficiente ma totalmente integrato con la cornice ambientale e il contesto sociale che lo ospita. L’opera è molto moderna per i suoi tempi, con una lunga spina da cui si innestano percorsi pedonali che giungono agli alloggi e poi al mare. In questa struttura di quindici ettari Porcinai si propone di “restaurare la natura” recuperando la fisionomia naturale del territorio deturpata dagli interventi delle ruspe durante la seconda guerra mondiale. Si tratta di un “paesaggio-parco”: lo scopo è aggredire l’architettura brutalista reinserendo il rigoglio della macchia mediterranea. Il villaggio è un progetto innovativo dal punto di vista architettonico, futuristico ed unico nel suo genere dove il verde, puntigliosamente inserito, aggredisce l’architettura preesistente. 
Inizialmente il complesso riscuote grande successo, prima con Club Méditerranée e poi acquisito da Valtur: quasi centomila presenze annue, aumento degli indotti derivanti dal turismo e non da ultimo un impatto prezioso sul mercato del lavoro, dando lavoro a circa cinquecentocinquanta persone, la maggior parte provenienti dalla zona. Il 2011 è l’anno nero del complesso turistico: la chiusura e la decisione di vendere lo trasforma in proprietà “pubblico-privata”, lasciata ad un abbandono via via crescente. La proprietà appartiene da un lato al Comune di Nicotera che, denuncia l’Associazione Porcinai, non ha mai risposto agli appelli per il recupero e alle preoccupazioni della società civile, e da Prelios, società di gestione e servizi immobiliari. Filippi Morrione sostiene la necessità urgente di cambiare approccio dopo anni di incuria, di mancata manutenzione, di deterioramento di edifici e impianti dovuti al contesto marino in cui il complesso è situato. Oltre al decadimento strutturale, ad aggravare la situazione si denunciano anche le mire della ‘ndrangheta per appropriarsi dell’ex villaggio Valtur. Emerge da inchieste di testate giornalistiche e programmi televisivi, nonché dal processo Rinascita-Scott che porta alla luce l’intento criminale del clan Mancuso di Limbadi, i suoi legami con politica e istituzioni per lucrare sul bene.
L’Associazione Pietro Porcinai APS onlus si fa quindi portavoce di un appello che accende i riflettori su un bene non solo economico, ma soprattutto culturale e ambientale riconosciuto come patrimonio dei calabresi da valorizzare e difendere. Si tratta, come l’Associazione segnala, di “prendere piena consapevolezza dei pericoli che anche la vicenda ex Valtur segnala per la tutela di diritti costituzionali fondamentali: la difesa del patrimonio naturale e la piena libertà di goderne grazie a un sistema economico sano e sostenibile”. L’appello rappresenta un seme e si rivolge tanto alla popolazione, alla società civile, quanto alle istituzioni e ai partiti – il sindaco di Nicotera, il consiglio regionale e il Presidente che scaturirà dalle elezioni ormai imminenti. È indispensabile lo sforzo sinergico di tutti i coinvolti sul territorio calabrese per salvare dall’abbandono un bene di così grande rilievo. Filippi Morrione denuncia infatti l’omertà con la quale il gruppo dell’Associazione si è interfacciato, ribadendo la necessità di coinvolgere giovani, enti locali di volontariato e gruppi organizzati sul territorio, dal basso. 
Dice Filippi Morrione “abbiamo bisogno che se ne parli, non abbiamo nessun interesse diretto ma ci siamo sentiti dire troppe volte negli ultimi anni ‘non ne so nulla’, il nostro interesse è che se ne parli […] bisogna far sì che ora che si può far qualcosa qualcuno se ne occupi e si prenda l’impegno”.
Chiaramente, però, questo non basta. Rivolgono l’appello “a chi sa cosa fare e a chi sa con chi ha a che fare”. L’interrogativo finale è ai candidati alla presidenza della regione: chi e come si assumerà la responsabilità di salvare il meraviglioso progetto di Porcinai?
Intanto, per aderire all’appello e fare la nostra parte, scrivere all’indirizzo mail: info@associazioneporcinai.org