Utilizzare la pazzia per combattere lo Stato, per evitare il carcere. E’ questo il sunto del libro presentato in Piazzetta San Domenico. La giornalista Raffaella Calandra ne ha discusso con gli autori del libro, lo psichiatra Corrado De Rosa e la giornalista Laura Galesi, insieme al giornalista Francesco D’Ayala e al magistrato Giovanni Musarò.  “Mafia da legare. Pazzi sanguinari, per convenienza, finte perizie vere malattie: come Cosa Nostra usa la follia”, edito da Sperling&Kupfer, è infatti il primo libro che raccoglie ed analizza dettagliatamente le varie tecniche utilizzate dalla mafia siciliana e non solo per costruire un sistema che le ha permesso negli anni di presentare finte perizie mediche per sfuggire alla detenzione carceraria.
Nonostante nel codice d’onore di Cosa Nostra la pazzia sia considerata un insulto, questa diventa un escamotage per continuare la propria personale lotta allo Stato.

Depressione, anoressia, malattie mentali, schizofrenia, disturbi cognitivi di ogni genere, incapacità di intendere e di volere, demenza senile, per sino cecità sono solo alcune tra le patologie utilizzate dai boss mafiosi per dimostrare la loro incompatibilità con il carcere, per ottenere vantaggi processuali, per sfuggire al 41bis, per bloccare i processi in cui sono imputati. Questa è la strumentalizzazione della follia descritta nel libro, che aiuta anche e soprattutto a demolire quel alone di onorabilità ed integrità morale che aleggia intorno alla figura dei boss siciliani.

Il mafioso si trasforma in un malato mentale per convenienza, ma certo non può organizzare questa truffa sistematica completamente in solitudine. Durante il dibattito, infatti, si è molto insistito sulle connivenze e gli aiuti di professionisti del settore, medici, consulenti di parte, psichiatri cioè quella zona grigia che per denaro, favori e potere aiutano e collaborano con il sistema delle finte pazzie. Cartelle cliniche falsate, perizie firmate da fior fior di professionisti che dimostrano la follia di questo o di quel boss. Materialmente viene presentata una folta  documentazione che raccoglie informazioni mediche relative all’assistito che risalgono indietro anche di diversi anni, atte a dimostrare la patologia inventata di sana pianta per contribuire alla scarcerazione del boss di turno. La malattia viene simulata, studiata a tavolino, studiate esattamente le parole che possono colpire un giudice al fine di rendere quasi impossibile ogni tentativo di dimostrare l’assurdità di quelle carte.

I boss mafiosi ottengono benefici e sconti di pena solo se hanno dalla loro parte un pool di assistenti che sono in grado di creare un immaginario intorno alla malattia del loro assistito che nei fatti agisce come un folle, attua dei comportamenti anche autolesionisti.

Per rendere chiaro tutto il meccanismo basta riprendere una frase contenuta nel libro estrapolata da un’intercettazione telefonica, ribadita durante il confronto a Lamezia Terme: “Se ti rompi il braccio si vede che te lo sei rotto e con il tempo te lo sistemano. Se sei pazzo, come ti scoprono?”.

Altro capitolo delle connivenze è quello delle cliniche convenzionate con il servizio sanitario nazionale e i rispettivi titolari al servizio delle cosche. Oppure quello degli OPG, luoghi divenuti troppo spesso sicure mura da cui i boss continuavano a gestire i loro affari. Emblematico il caso dell’OPG di Barcellona Pozzo di Gotto, dove operava un sistema mafioso ben collaudato con i boss malavitosi che premevano per farsi rinchiudere in quella struttura. Una struttura sanitaria divenuta ben presto il centro di questo sistema; all’interno i boss vivevano circondati dal lusso più sfrenato, indossavano vestaglie di seta, consumavano cene a base di aragosta ed altre pietanze costosissime. I loro familiari, quasi per diritto, avevano la possibilità di prendere una casa nelle vicinanze in modo da poter assistere il “malato”. Un ospedale psichiatrico giudiziario trasformatosi nella casa della mafia siciliana.

Ma le malattie e le relative perizie diventano anche strumento di trattativa come per il caso del rapimento di Ciro Cirillo, il politico napoletano rapito dalla Brigate Rosse nel 1981. In questo caso la Democrazia Cristiana scelse la via della trattativa con i terroristi e per giungere alla liberazione del politico campano si arrivò addirittura a contattare Raffaele Cutolo, capo indiscusso della Nuova Camorra Organizzata. In quella trattativa Cutolo, per le sue prestazioni, pose sul piatto delle richieste ben precise: appalti, un miliardo e mezzo di lire, ma soprattutto un pacchetto di perizie mediche.