La sceneggiatrice de I cento passi presenta un romanzo al femminile che vede come protagoniste due donne agli antipodi, due metà del cielo. Vittoria Bollani: magistrato dall’alto valore etico che viene dal nord e inizia la sua carriera in Calabria. Assunta Macrì: vedova di un soldato di ‘ndrangheta, vive all’insegna dell’anti-etica mafiosa. Legalità e corruzione, indagini e vendette, giustizia e sangue. Il coraggio: loro comune denominatore.

Monica Zapelli ammette “di non sentire in alcun modo il fascino del crimine. Dietro quest’istinto femminile c’è una verità: sotto la mafia si vive male“. La donna tuttavia, ricorda Gabriella Reillo, presidente di Corte d’Appello di Catanzaro, “è affiliata al pari dell’uomo”, anche se “in una situazione d’omertà generale, nel momento della disperazione, chi motiva sono sorelle, madri, mogli. La donna in questi frangenti reagisce, o perché più svincolata, o più travolta, o perché ha più coraggio”. Il libro della Zapelli parte da eventi di cronaca, inseriti poi in una narrazione sempre attuale, permettendo d’affrontare questioni quali l’applicazione del sistema di confisca dei beni, l’occupazione mal gestita dallo Stato, la solitudine di chi contrasta i poteri. Il fango diviene il Leitmotiv che simboleggia la circolarità degli eventi: “è come se noi, rispetto alla corruzione, svuotassimo il mare con un cucchiaio, il paese resta con le stesse impurità. Il fango è l’incontro tra un sentimento che Vittoria ha nell’occuparsi di questi reati e un teatro in cui va in scena sempre lo stesso spettacolo, cambiano solo attori e costumi”.

La solitudine accompagna il coraggio, colorandosi di sfumature diverse: ci si può sentire sole perché bloccate in un matrimonio combinato, ma anche indagando sulle storie di mafia. La Zapelli definisce queste ultime “le persone giovani che in solitudine rappresentano un mondo fatto di valori. C’è nel libro un elogio della solitudine: i momenti in cui siamo soli sono quelli in cui siamo costretti a conoscere il mondo perché dobbiamo uscire da noi. Nell’andare verso gli altri scopriamo qualcosa di noi stessi”. Alla domanda della giornalista Anna Rocca sulla scelta del magistrato di togliere i figli alle madri di ‘ndrangheta, la scrittrice fa una manifestazione di poetica: “non è interessante parlare di reati, ma raccontare qualcosa che sottenda le domande universali che riguardano la vita delle persone. Nel 2008 inciampai in una notizia senza clamore riguardante una sentenza della procura di Reggio Calabria, che aveva tolto i figli al boss De Stefano. M’è sembrato interessante perché rimandava a una domanda universale: di chi sono i figli? Oggettivamente il destino dei bambini è l’affiliazione. Il tribunale dei minori di Reggio è andato avanti: se una famiglia di ‘ndrangheta commette un reato, può fare l’immediato allontanamento dalla Calabria e mettere i ragazzi in comunità, mantenendo i rapporti con la famiglia d’origine.

È un modo di lavorare mostrando anche il volto di uno Stato amico”. Ha aggiunto poi la Reillo che “c’è bisogno di un’attività educativa nelle scuole, solo la repressione non è sufficiente”. L’apparente critica del libro alle istituzioni scolastiche si fa dunque incoraggiamento: “Dobbiamo avere il coraggio di dire che la nostra antimafia sia all’altezza delle nostre intenzioni, le lezioni sulla legalità nelle scuole vanno fatte bene, altrimenti sono controproducenti” conclude Monica Zapelli congedando il lettore, nel finale del suo libro, con un messaggio di speranza rivolto al futuro: “il magistrato salverà la vita di una persona, che non è quella che s’aspettava. Quando si va nella direzione giusta forse non si trova quello che si stava cercando, ma la vita ci fa regali inaspettati”.

Le foto di Mario Spada per Trame Festival