Amin e Isoké sono due bambini che vivono in una realtà di estrema povertà in Sierra Leone. Un giorno dei predoni assaltano il loro villaggio, massacrando la loro famiglia. Comincia così il loro viaggio. La meta è suggerita dalla voce ingenuamente pragmatica del nonno: la Svezia, che diventa per loro un’utopia, la loro uscita dall’Isola di Arturo che era la loro realtà che nonostante le molte mancanze, rimaneva loro.

I due attori protagonisti erano, prima della ripresa del film, totalmente ignari di cosa fosse il mezzo cinematografico. Non avevano mai visto un film non essendoci luce elettrica nei loro villaggi. Questo porta le due figure principali a mancare di quel pathos che siamo abituati, da occidentali, ad assimilare a queste situazioni. Una scelta sbagliata? No, perché il regista riesce a sfruttare questa caratteristica per articolare una poetica spietata nella sua schiettezza.

La parte iniziale del film ricorda quasi quella che Pasolini riteneva “la parte più bella” della sua Medea: viene rappresentato il popolo. Torna alla mente “Kirikù e la strega Karabà” di Ocelot. Ma qui non c’è nessuna fiaba e nessun eroe bambino: i bambini sono le vittime, costituiscono una resistenza che avrebbe fatto volentieri a meno di dover resistere. Il senso di collettività non abbandona mai il film: spesso, durante la visione, lo spettatore dimentica i protagonisti. Quello che viene in realtà raccontato non è la storia dei due personaggi ma ciò che succede loro. Inizialmente vengono scisse con chiarezza la povertà e la miseria, come ribadito anche dalle parole del regista Pasquale Scimeca. La gente nel villaggio rappresentato vive serenamente nonostante manchino acqua e corrente elettrica, ogni dramma è risolvibile, “tutto ciò che si rompe si può aggiustare”. Ci Vengono mostrari i riti, le preghiere, il gioco, la scuola: la vita quotidiana. Quest’operazione viene compiuta con un’estrema umiltà che contagia lo spettatore: non c’è niente da ostentare, non si tenta di convincere nessuno; ma riesce in quello che sembra essere uno dei suoi obiettivi: fare rendere conto allo spettatore della sua ignoranza.

La parte più cruda di Balon è però indubbiamente quella riguardante la detenzione nelle carceri libiche.

Un racconto crudo che dovrebbe suscitare, alla luce dei fatti attuali, un qualcosa nei responsabili diretti o indiretti della detenzione di anche una sola persona che sarebbe invece potuta essere accolta e avrebbe potuto evitare di essere sottoposta a torture.

Come può quest’umanità non rendersi conto, alla luce di documenti come questo, che in Libia la storia si sta ripetendo? Mentre il dolore passa sullo schermo, torna alla mente “Se questo è un uomo” di Primo Levi. L’emozione scuote lo spettatore nelle scene più forti, lo lascia spiazzato, senza parole, senza spiegazioni. Ma il fatto che ci siano cose che non riusciamo a spiegare non ci autorizza  a non conoscerle.

Il film non ci mostra come il viaggio va a finire. Rimaniamo sospesi. Ma ci mostra “il dopo” tramite i sogni del protagonista: ciò che rimane è il ricordo di quella povertà serena, i sorrisi, il gioco, i canti. Quello che invece lo spettatore porta a casa, dopo aver visto il lungometraggio, è la voglia di capire, di approfondire, di allontanare ogni pregiudizio, sia negativo che positivo. Di tornare umili di fronte al prossimo. Di fermarsi a pensare con la speranza, ma senza presunzione, di conoscere. Per capire.

 

Costanza Fusco